CopertinaCeretto

– di Gianluca Montinaro

Dall’annata 2020 in Langa ci si aspetta molto. Anche perché segue la 2019, che viene ritenuta una ottima annata (seppur forse un po’ calda) e la 2018 che, benché non abbia convinto tutti, ha conquistato coloro che amano il Barolo ‘classico’, giocato su quella finezza e quella sensualità che sono patrimonio delle annate fresche.

«In effetti, dalla 2020 ci attendiamo soddisfazioni, anche se sappiamo che sono vini che hanno bisogno di un po’ di tempo per esprimersi», dice Roberta Ceretto, figlia di Bruno e presidente della Cantina Ceretto, mentre dalle ampie vetrate della tenuta Monsordo Bernardina (la cantina principale, che ha sede ad Alba) guarda le superfici vitate che circondano lo storico edificio, un tempo appartenuto a Casa Savoia. E che sono solo una parte dei 160 ettari di proprietà, dislocati fra Barolo, Barbaresco, Roero e Santo Stefano Belbo.

«Qui, per storicità, ci è permesso di vinificare il Barolo e il Barbaresco, anche se siamo fuori dalle zone delle Docg. Però, per precisa scelta, abbiamo deciso di vinificare in questa cantina solo i Langhe Doc (fra cui il celebre Blangé, 100% Arneis), il Dolcetto, la Barbera, e i ‘base’ di Barolo e Barbaresco. I cru vengono invece lavorati nelle cantine di Bricco Rocche (Castiglione Falletto) e di Bricco Asili (Barbaresco)». Una lavorazione che si può definire ‘classica’: fermentazione in acciaio e quindi passaggio in legno (prima rovere francese per la malolattica e quindi austriaco – perché più ‘neutrale’ – per l’affinamento), per terminare con un ulteriore periodo di affinamento in vetro. «Ciò che invece ha guidato il nostro lavoro – prosegue Roberta Ceretto – è stata la ricerca, soprattutto da parte di mio cugino Alessandro, che ricopre il ruolo di enologo, della definizione territoriale. Nel tempo abbiamo sempre più cercato di dare una identità ai nostri vini. Da una parte, negli anni, si è quindi cercato di acquisire parcelle particolarmente vocate, nei comuni più importanti di entrambe le denominazioni. Dall’altra ci si è applicati a fare in modo che fosse percepibile il terroir, ovvero le caratteristiche e le differenze precipue di ognuna di queste vigne».

Di fronte a noi, sul vasto tavolo, è schierata la gamma dei cru di Barbaresco 2021 e Barolo 2020, ancora non usciti in commercio: Bernadot; Gallina e Asili; e quindi Brunate; Bussia; Rocche di Castiglione; Bricco Rocche e Prapò (a questi cinque cru di Barolo, ne va aggiunto un sesto: Cannubi San Lorenzo, che però viene vinificato solo in magnum e solo in versione Riserva, con un invecchiamento di almeno dieci anni). I Barbaresco, che provengono rispettivamente da Treiso, Neive e Barbaresco, raccontano di un 2021 altalenante dal punto di vista climatico (inverno piovoso, primavera regolare, estate siccitosa, e infine buona escursione termica nella seconda metà di settembre e sino ai primi di ottobre, durante la vendemmia) ma che ha regalato delle uve ben mature, dal punto di vista tecnologico e dal punto di vista fenolico, all’incirca nel medesimo momento. Ne sono quindi usciti vini sì improntati a fresca finezza ma comunque dotati di una struttura profonda (più lunga che larga). Bernadot, anche per l’altitudine della vigna (350 metri ca.), ha un naso fresco e pulito, quasi franco nell’espressione che rimanda al mondo della piccola frutta nera e rossa, della rosa e della viola, mentre la bocca si muove, con bella eleganza, fra una mineralità avvolgente, un tannino setoso e una bella sensazione pseudocalorica. Il vino appare di medio corpo, fine e già armonico nella sua coinvolgente immediatezza. Discorso differente invece per Gallina dove tutto appare giocato su una finezza ‘in punta di piedi’: la tensione che anima Bernadot viene qui sostituita da una sorta di espressività rarefatta, tanto al naso (i frutti, i fiori, le spezie si avvertono in abbondanza ma come se fossero minuscoli e cesellati) quanto in bocca. Il sorso è lungo e ben bilanciato, fra un tannino vellutato, un minerale spostato su note di carboncino, e adeguate note caloriche e pseudocaloriche. La freschezza sorregge tutta la beva ma senza sovrastarla: è anzi la finezza del minerale a tornare in fine di bocca, per un vino che ammalia per la struttura sinuosa e leggiadra. Asili si esprime invece con più possanza: il naso, benché fresco e immediato (quasi croccante), ha una espressività più generosa: il mirtillo nero e rosso – per esempio – appaiono ben riconoscibili, così come la rosa. Sentori balsamici, uniti a qualche tocco di pepe e di liquirizia, accompagnano una verticalità strutturata, che ben si ritrova pure in bocca. Il vino, pur rimanendo di medio corpo, ha una imponenza maggiore: il tannino è fitto ma integrato. La freschezza viva. Le morbidezze ampie. Il sorso ha una sorta di ‘golosità’ nel suo essere molto lungo, estremamente pulito e di sommo equilibrio.

Si fa un passo indietro di un anno con i Barolo. E, come per dantesco contrappasso, l’espressività che caratterizza il 2021 diviene più involuta, più indecifrabile, in un che di enigmatico che pare accomunare i cinque Barolo 2020. I fiori che caratterizzano Brunate (La Morra) giocano a nascondino, fra la viola e la rosa, il giaggiolo e il geranio ma poi – ecco – che appaiono, in mezzo al bouquet, gli immancabili frutti di bosco, i sentori balsamici, un tocco di spezia dolce (pepe bianco). La mineralità, che al naso appare poco evidente, è invece ben chiara in bocca: guida tutto il sorso, svelando via via il tannino setoso, l’acidità, la struttura polialcolica. L’insieme è molto armonico, ampio e fine, e termina non fra molteplici rimandi (come in genere accade) ma in modo prospettico. L’insieme delle sensazioni ‘precipita’ in fondo di bocca, disegnando una lunghezza gustativa verticale di impressionante verticalità. Bussia (uno dei cru più estesi di Monforte d’Alba) appare forse – fra i cinque – il meno ermetico: il naso è fine e ampio, pieno ed espressivo. A fianco a una fine verticalità appaiono i consueti aromi fruttati e floreali, giocati su una dolce croccantezza: c’è il lampone, c’è la mora, c’è il petalo di rosa, c’è la viola mammola… eppoi c’è un po’ di eucalipto, un tocco di arancia sanguinella e una (curiosa) sensazione di macchia mediterranea che riporta al timo. Il sorso è – come per Asili – ‘goloso’ nella sua ampiezza e profondità. Bella la mineralità e ben bilanciata dalla freschezza appare l’estrazione e la struttura polialcolica. Il finale è lungo, netto e ampio, in un quadro complessivo di invidiabile equilibrio.

Rocche di Castiglione e il celebre Bricco Rocche sono due cru adiacenti (entrambi a Castiglione Falletto), con la particolarità che il secondo, oltre a essere la più piccola MGA (Menzione Geografica Aggiuntiva, poco più di un ettaro) di tutta la Docg, è interamente di proprietà della Cantina Ceretto. Nonostante la vicinanza i due vini si esprimono in modo differente, seppur consonante. Di Rocche di Castiglione colpisce la finezza, in un quadro di forte solidità espressiva. I profumi giungono con incisività e intensità, e lasciano il segno la verticalità e le sensazioni balsamiche. La bocca è poderosa, seppur ancora chiusa: si avverte il tannino fitto ma levigato, la sapidità che ricorda un po’ il carbone e un po’ la pietra focaia, e quindi la struttura imponente ma ancora ‘compressa’ dalla giovinezza. Il vino pare infatti esprimersi molto più nelle sensazioni retronasali che nel primo approccio di bocca, quasi avesse timore di parlare. Bricco Rocche, invece, mostra una capacità espressiva più sviluppata: non a caso infatti la vigna è posta sulla parte sommitale, a una altezza di circa 370 metri (peraltro con una ottima esposizione da Sud-Est a Sud-Ovest). Freschissimo al naso e pulitissimo in bocca, non è però un vino che va sottovalutato: nasconde difatti una profondità che si mostra poco a poco. Bisogna andare a cercare quello che si cela dietro i consueti fiori e frutta, e allora si troverà il geranio, il timo serpillo, la liquirizia, il susino Stanley, e quindi sensazioni speziate e minerali. Anche il sorso gioca a nascondino: teso e lungo è in realtà intessuto di bella morbidezza, di finissima sapidità, di tannino ‘fresco’ ma ‘dolce’, in una situazione complessiva di massimo equilibrio, intensità, finezza, persistenza e pulizia (che invoglia subito al sorso successivo).

Con Prapò, infine, si fa tappa a Serralunga d’Alba. Il vino, come già per il Rocche di Castiglione, pare mostrare ancora un po’ di ritrosia: c’è infatti una sorta di elegante monoliticità che ‘tiene insieme’ tutte le sensazioni. Il bouquet parla attraverso la sua verticalità: a mezzo fra sasso e argilla si può sentire il fiore, il frutto ma pure un tocco di spezia (che può ricordare la cannella) e una fresca balsamicità. In bocca la prima sensazione che colpisce è quella calorica, seguita subito dalle durezze: più la mineralità che la freschezza, più il tannino che l’acidità. Ecco poi che, facendo roteare il liquido sul palato, il vino inizia a ‘sciogliersi’: la struttura si apre, come una fisarmonica, facendo acquistare corpo e spessore, e guidando il sorso in fine di bocca con equilibrio, finezza e netta pulizia.

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