– di Gianluca Montinaro
Quando un appassionato attraversa le Alpi per approcciarsi alle grandi tavole e ai grandi vini francesi lo fa con un sentimento che è misto di rispetto e aspettativa. Perché l’haute cuisine è nata duecento anni fa sui bordi della Senna. E perché in Côte-d’Or si vinifica da oltre dieci secoli. È un po’ – quindi – come per l’amatore d’arte, che si reca al Louvre per contemplare capolavori assoluti come la Gioconda e il Concerto campestre. O come per l’estimatore di letteratura, che giunge a Parigi per camminare sui luoghi di Victor Hugo e di Marcel Proust.
Ebbene, mancavo da quattro anni dalla tavola di Georges Blanc, uno dei cuochi più celebri e celebrati di Francia (ininterrottamente tre stelle Michelin dal 1981), e pregustavo, con le papille della mente, quei piatti, e soprattutto quello stile – lo ‘stile Blanc’: sempiterno e senza tempo –, che mi avevano sempre colpito in occasione delle mie precedenti visite. Il pollo della Bresse, le polpette di luccio, le coscette di rana… tutte pietanze che, in modo magistrale, ricco e sontuoso, hanno sempre raccontato, nobilitandola, la tradizione contadina di questo spicchio di Francia, a mezza strada fra Lione e Beaune, fra gli stagni della Dombes e i campi della Bresse. Lontano dal fasto delle grandi maison parigine, la tavola di Blanc ha sempre rappresentato le solide certezze della campagna: insomma «una antica cassapanca», come l’ha definita genialmente, in modo sinestetico, un amico. D’alto antiquariato, scolpita, tornita, cesellata: una «cassapanca» come quelle che si battono all’asta o che si ammirano nei musei. Come quelle, appunto, che ti aspetti di trovare in un castello sperso fra i boschi. E che guardi affascinato. Ma che mai ti sogneresti di acquistare per casa (dove la metti una «cassapanca» nelle case d’oggi? E soprattutto, chi si compra più una cassapanca?). Ecco, appunto, Georges Blanc: un luogo forse desueto, ma non vecchio. Di una bellezza fané, ma non diruta. Un ristorante ‘vocabolario’ (da aprire per conoscere l’esattezza dei termini, e la correttezza delle loro declinazioni), ma non certo un ricettacolo di parole obsolete. Che fatica, e che maestria – ho sempre pensato, fra me e me –, viaggiare su quel crinale che divide il ‘classico’ dal ‘banale’, la ‘semplicità’ dalla ‘scontatezza’, l’‘applicazione’ dalla ‘ripetitività’. E ammiravo la capacità di monsieur le Chef di far sedere sessanta persone regalando a ognuna l’emozione indelebile di una cena memorabile (i menu degustazione sono due, a 320 e 380 euro, ma si può anche ordinare alla carta).
Ora, che in occasione della mia ultima visita, al mio tavolo, ‘le cose’ non siano andate come al solito è fatto di poco conto. Conta invece più fare una riflessione generale sul perché ‘le cose’ non si siano svolte nel verso giusto. Conta di più tentare di comprendere perché quella cucina, un tempo famosa sì per la sua costruzione ma soprattutto per il suo gusto, banalmente si ‘perda’ proponendo tre piatti, peraltro consecutivi, con il medesimo elemento predominante (coriandolo: nel granchio in gelatina di crostacei con caviale leggermente affumicato e salsa all’astice; nel piccione con ‘salsa estiva’ alle uova di luccio; nello scalogno con insalata e nocciola di Borgogna tostata). Perché l’animella dorée venga proposta con una salsa di basilico, aglio, capperi ove ‘galleggiano’ delle piccole trofie («pâtes italiennes», come spiegatomi dal maître, mentre io lo guardavo un poco dubbioso…). Perché i tanti (troppi…) elementi che compongono le pietanze appaiano affastellati più che affiancati secondo logica (come nel caso della «fiorentina» di sanpietro).
Il tutto accompagnato da un servizio disordinato. Da bottiglie di vino mancanti (un peccato che accada nella seconda cantina di Francia…). Da consigli quantomeno curiosi (si può proporre la sostituzione di uno Champagne Grand Cru millesimato da lieu-dit, bottiglia fatta in poche migliaia di esemplari numerati, con un banale ‘base’?). Da una mescita assai naïf (vini stappati in un’altra sala e portati al tavolo aperti, senza tappo…). Da un invito, fin troppo esplicito, ad andare a gustare l’alcolico finale nell’adiacente salottino (con vista sui camerieri in maniche di camicia che sbarazzano la sala e accartocciano le tovaglie nei sacchi della lavanderia). E – dulcis in fundo – da un pezzo di plastica nel dolce.
Georges Blanc, che ha superato gli ottant’anni, ha da tempo ceduto il comando delle cucine a suo figlio Frédéric (affiancato dall’executive-chef Matteo Rossatto). Il quale, probabilmente, sta imprimendo un nuovo corso alla cucina di Vonnas. Di cuore gli auguriamo il meglio. Sperando però che non sacrifichi il savoir-faire e lo stile delle precedenti generazioni della sua famiglia sull’altare del nuovo per il nuovo. È giusto, e logico, che tutto abbia una evoluzione, per rimanere al passo coi tempi. Ma è altrettanto giusto e logico (nonché auspicabile!) che ciò avvenga in continuità di spirito. Perché in caso contrario il rischio è quello di perdersi negli spazi del nulla. À la prochaine, monsieur Blanc!
- Georges Blanc
- Place du Marché
- Vonnas
- Francia
- Tel. 0033.(0)4.74509090
- www.georgesblanc.com
- reservation@georgesblanc.com
- Turno di chiusura: lunedì; martedì; mercoledì
- Ferie: variabili