– di Gianluca Montinaro
Alzando lo sguardo, dalla bianca Cantina di Terlano (250 metri s.l.m.) su verso il Monzoccolo, la zona denominata Vorberg svetta altissima: impressionante e quasi a strapiombo sul piccolo paese altoatesino. Lassù, a un’altitudine compresa fra 500 e 650 metri, su pendi da ‘pista nera’, crescono i filari di quel Vorberg Pinot Bianco Riserva che, da decenni (seppure la prima annata che riporta esplicitamente il nome Vorberg in etichetta risalga solo al 1993), è uno dei ‘fiori all’occhiello’ di questa celeberrima cantina. È questa vista a dare, plasticamente, l’immagine da un lato di una viticoltura eroica, fatta completamente a mano, con tanta passione e sacrificio. Dall’altro a fornire la chiave per penetrare all’interno del ‘mistero’ di Terlano. Già, mistero: perché a oggi non è possibile dire con esattezza per quale motivo i vini di questa cantina – i bianchi in particolare – abbiano una espressione così piena e fine e, soprattutto, ‘invecchino’ così bene, attraversando i decenni con relativa facilità. Ma necessariamente si deve compiere un passo indietro, e fare ancora riferimento a quei dati che tutti coloro che amano il vino e la storia dell’enologia già ben conoscono.
È il 1893 quando 24 viticoltori fondano la Cantina sociale di Terlano. Sapevano, questi pionieri, che la loro era una terra da vini bianchi: l’elevato tenore minerale dei terreni posti nel cono di deiezione che sovrasta il paese, l’escursione termica fra il giorno e la notte (mitigata dall’accumulo di calore del porfido quarzifero), la perfetta esposizione e la buona ventilazione erano le giuste premesse per creare grandi vini. Avrebbero forse potuto essere un inconveniente le differenti altitudini dei vigneti: scopersero però che proprio questa peculiarità, insieme alle diverse composizioni del suolo, erano in realtà un ulteriore vantaggio. Ogni vitigno poteva trovare davvero il suo terreno d’elezione, dando così il meglio di sé. Se il Pinot Bianco, lo Chardonnay e il Sauvignon furono ovviamente preferiti agli altri vitigni, il passo successivo fu quello di dare una identità all’assemblaggio che, per tradizione, si faceva di queste uve. Tre ‘campioni’ – il Pinot Bianco con la sua freschezza e mineralità, lo Chardonnay con la sua morbidezza, il Sauvignon con la sua aromaticità – per un ‘fuoriclasse’ che prese appunto il nome di Terlano (Terlaner, in lingua tedesca) al quale poi venne riconosciuta (ma questo in tempi recenti) una Doc a sé stante.
Il Terlano però aveva ancora tante potenzialità inespresse. E di questo se ne accorse, negli anni Sessanta, Sebastian Stocker (classe 1929), allora giovane kellermeister della Cantina. Il suo sogno era un vino che potesse gareggiare con i grandi bianchi francesi e tedeschi, acquisendo finezza ed eleganza grazie a invecchiamenti assai lunghi. Studiando le potenzialità dei singoli vigneti e il miglioramento dei processi di cantina, mise a punto quello che è, a tutt’oggi, conosciuto come Metodo Stocker. Dopo la pressatura il mosto sosta in botti grandi, all’interno delle quali avvengono a temperatura controllata la fermentazione alcolica e poi, spontaneamente, quella malolattica. E solo dopo un periodo di circa dodici mesi, durante i quali si lascia il tempo al vino di affinare sur lie, si procede all’imbottigliamento. Ma c’è di più: le partite migliori vengono poste in piccoli fusti d’acciaio da 2.500 litri, dove continuano a evolvere a contatto con i propri lieviti, sino al raggiungimento (e ciò avviene dopo almeno una decina di anni) dell’ideale grado di armonia ed equilibrio. Sono queste bottiglie – le celebri Rarità – a dimostrare come il territorio di Terlano nasconda una potenza enorme che, magicamente e per mistero, si trasmette a queste bottiglie ‘speciali’.
Ma i misteri non terminano qui. Perché a metà degli anni Cinquanta in pochi credevano a ciò che Stocker stava tentando di fare. Sicché il giovane enologo da allora iniziò a nascondere, murandole negli interstizi dei sotterranei della Cantina, circa cinquecento bottiglie d’ogni annata, col fine di dimostrare, quando sarebbe giunto il momento, la bontà della sua teoria sulla longevità dei vini di Terlano. Sui muri iniziarono ad apparire alcuni strani segni che furono interpretati, da coloro che riuscivano a coglierli nella perenne penombra dei cunicoli, come normali segni del tempo. In realtà erano le indicazioni che Stocker via via tracciava per ritrovare i suoi ‘tesori nascosti’. Tesori che in effetti vennero poi ritrovati, in parte dallo stesso kellermeister (che, ricordiamo, continuò a lavorare sino al 1993, morendo poi nel 2017), in parte negli anni successivi, quando la Cantina di Terlano effettuò importanti lavori di ampliamento e ristrutturazione dei propri spazi. Ma, a domanda specifica se tutte le bottiglie fossero state scoperte, Stocker rispose che altro ancora si celava, e si cela tuttora. Ma a questa ‘caccia al tesoro’ hanno poi contribuito anche i successori del geniale kellermeister che, sulle orme del ‘maestro’, hanno proseguito la tradizione di ‘nascondere’ piccole partite di bottiglie.
Il risultato di questa scelta è oggi comunque visibile in buona parte e si sostanzia, da un lato, in un enorme ‘archivio enologico’, posto a tredici metri di profondità, di circa centomila bottiglie, di tutte le annate a partire dal 1955, e alcune ancora più vecchie. Dall’altro nella ‘sala delle rarità’ ove si trovano i piccoli fusti d’acciaio nei quali ‘riposano’ quelle partite che, prima o poi, quando l’enologo Rudi Kofler troverà siano giunte a perfetta maturazione, saranno imbottigliate ed etichettate come «Rarity» (è attualmente in commercio il Pinot Bianco Rarity 2010, mentre il fusto più vecchio risale contiene un Terlano 1979 che ancora viene lasciato affinare).
Un’ultima notazione va fatta sulla gestione delle partite di uva che, a seconda della loro qualità, vengono destinate alla linea delle Riserve (denominata «Selection») piuttosto che alla linea ‘base’, chiamata «Tradition». Le parcelle migliori in assoluto sono invece utilizzate per le «Rarity» e per l’assemblaggio del Terlaner I, il vino di punta della Cantina. Queste scelte vengono effettuate anche in base al lavoro compiuto da ogni singolo conferitore: c’è una sorta di punteggio – attribuito dall’enologo – che premia, anche economicamente, quei viticoltori che hanno lavorato più e meglio, responsabilizzandoli e rendendoli davvero protagonisti.
La degustazione si è focalizzata perlopiù sulle etichette a base Pinot Bianchi che, sebbene a causa della vasta produttività non sia una varietà facile, sui pendii del Monzoccolo si presenta con grappolo piccolo e spargolo. Inoltre la perfetta esposizione permette una ottima maturazione, e la composizione del terreno dona una particolare finezza ai vini, che appare viepiù attraverso gli anni, esprimendosi in una maggiore apertura e complessità. Sicché anche nel Weissburgunder 2022 della linea «Tradition» ecco che spunta, al di là del profilo aromatico definito e calzante, una inusitata eleganza costruita con precisione (è difatti la mineralità a sostenere la beva, più che la freschezza). Il Vorberg Riserva, degustato nell’annata 2021 (quella attualmente in commercio) e nell’annata 2013 (in magnum), si propone con la stoffa del fuoriclasse. Il più giovane incanta con la sua composta irruenza, fatta di esuberati sentori di frutta, di fiori e di erbe, per il sorso, all’apparenza teso come una lama, ma poi caldo e avvolgente, e con un finale lungo, pulito e leggermente sapido. Il 2013, probabilmente complice anche l’affinamento nel formato par excellence, è semplicemente grandioso: il naso perde esuberanza ma guadagna in vastità, profondità e finezza. La frutta è gialla (nette sono la pesca e le note esotiche), i fiori virano su una aromaticità quasi inaspettata (sambuco) e i sentori minerali sono chiaramente percepibili. In bocca il vino incede maestoso: in attacco colpisce la freschezza che subito si stempera in mineralità, mentre avanzano le morbidezze che appaiono ben percepibili sul palato e che accompagnano, con equilibrata finezza, il sorso in fine di bocca, in un quadro di armonia e pulizia estrema. Il ‘confronto estremo’ avviene poi con il Pinot Bianco Rarity 2010 nel quale – fatto straordinario – le sensazioni appaiono come ‘invertite’. E difatti l’unico paragone possibile potrebbe essere con certi grandi Hermitage che, invecchiando, acquistano una apparente gioventù. Il naso è più profondo che largo e la sua espressività più sottile che ampia: le sensazioni fruttate si muovono dalla mela rossa alla frutta a polpa gialla, con netti rimandi esotici, accompagnati da sottili sensazioni di erbe aromatiche e minerali. In bocca, con sublime compostezza, appaiono in sequenza prima le durezze (la sottile freschezza, la fine mineralità) e quindi le morbidezze caloriche e pseudocaloriche. Ma queste dicotomie presto si fonde in una struttura armonica, ariosa e, al contempo, leggera e concentrata. L’equilibrio è superbo, l’eleganza quasi rarefatta, la lunghezza gusto-olfattiva infinita.
Si è poi proseguito con i Terlano, degustati nelle annate 2022 (Terlaner ‘base’, seppure faccia già parte della linea «Selection»), 2021 (Nova Domus Riserva) e 2020 (Terlaner I Grande Cuvée). Il Terlano, come già accennato, è un vino frutto di un blend con predominanza di Pinot Bianco, e rappresenta tutte le potenzialità del territorio da cui nasce. L’imponenza della sua struttura viene enfatizzata via via che ci si sposta verso il Terlaner I Grande Cuvée, un’etichetta nata con la vendemmia 2011 e che – negli intenti della Cantina – vuole esprimere al massimo grado l’essenza di Terlano. E se il ‘base’ 2022 (frutto in buona parte di vigne giovani, affinato per sei mesi circa in acciaio a contatto coi lieviti, e solo per un 20% in legni grandi) si muove enfatizzando le note di freschezza e mineralità più ‘rudi’, già il Nova Domus Riserva 2021imprime alla beva un cambio di passo, complice anche una materia prima più ‘importante’ (le uve arrivano dalle vigne migliori) e un affinamento più lungo (dodici mesi in botte grande, e quindi ancora almeno altri tre mesi dopo l’imbottigliamento). Il naso è complesso e fine, e si esprime su frutta a polpa bianca e gialla, fiori, erbe aromatiche, sensazioni minerali e qualche tocco speziato (il pepe bianco è, per esempio, chiaramente percepibile). La bocca, come nello stile Nova Domus, è piena e soddisfacente, non scevra di una certa voluttuosa rotondità polialcolica che duetta, sin da subito, con la freschezza. È poi la mineralità, finissima, a prendere il sopravvento, e a guidare il sorso con pulizia e gustosa sapidità, facendolo chiudere con una bella, morbida lunghezza. Ma è poi il Terlaner I Grande Cuvée a ‘ridisegnare’ l’idea stessa del vino Terlano. Nel bicchiere si presenta di un vivo giallo paglierino, non però troppo carico. Alla prima olfazione i profumi appaiono ampi, assai intensi e di qualità eccellente. Le sfumature aromatiche paiono muoversi con soave eleganza dall’agrumato all’erbaceo e al floreale, con accenti speziati e una chiara sensazione minerale. Al sorso il vino si mostra più elegante che opulento: caldo e morbido, fresco e sapido, si distende con un equilibrio di somma finezza e di grande intensità, in un susseguirsi di sensazioni retronasali ove predominano ancora mineralità e morbidezza.