– di Gianluca Montinaro
Si sostiene che scrivere sia una via privilegiata per conoscere meglio se stessi. Alla pagina bianca si possono confidare verità che raramente, per comodo e per pigrizia, si dicono. Scrivere è un modo per ‘disvelar-si’: la scrittura dice tanto dello scrivente, anche quando non si scrive direttamente di sé. Anche scrivere di ‘altro’ (di letteratura, di storia, di arte, di musica e – perché no? – di tavola) è in fondo un mezzo per riflettere, seppur indirettamente, su di sé. Per guardarsi dentro e fare ‘i conti’ con ciò che, coerentemente o meno, ognuno di noi pensa, dice, fa. Ebbene, che senso ha – oggi – scrivere di cucina? Che significato dare a un articolo che parla di piatti e vini?
La domanda è esattamente speculare a quella che mi rivolgono talvolta cuochi e ristoratori: che senso ha oggi fare cucina? Che strada deve percorrere la ristorazione? Fermo restando che nessuno ha risposte definitive da dare e che ognuno ha il sacrosanto diritto di seguire il sentiero che appare a lui più congeniale, ci sono un paio di riflessioni ‘oggettive’ che non si possono tralasciare. La prima riguarda la sempre maggiore difficoltà, da parte di uno chef, di esprimersi, nel suo proprio stile, con personalità, strattonato e condizionato com’è da mode e modi, da giudizi e pregiudizi, da bisogni e da richieste, oltre che dalle quotidiane contingenze. Quando – in sostanza – un piatto è davvero personale, e non la copia, o la copia di una copia, con tutto ciò che ne consegue (ovvero che raramente una copia è migliore dell’originale)? La seconda riguarda invece coloro che di cucina e di vini scrivono ed è riassumibile nella domanda: sono competenti per farlo? E soprattutto in cosa consiste la loro ‘presunta’ competenza?
Ecco allora che si torna si torna alla domanda iniziale: che senso ha, oggi, fare cucina e scrivere di cucina? Un possibile sentiero per una possibile risposta ha iniziato a percorrerlo Simone Cantafio che, da due anni a questa parte, ha assunto il comando della brigata della Stüa de Michil, il magnifico ristorante (con la sua immensa cantina) ‘nascosto’ all’interno dell’hotel La Perla, a Corvara in Badia (Bz). Sostenuto dalla famiglia Costa, primo fra tutti Michil, Cantafio sta provando a costruire una proposta di ristorazione che sia il più possibile ‘vera’. Che sia espressione moderna, attuale e personale della grande tradizione di cucina italiana. Che sia davvero fatta con materie prime ‘speciali’ e ‘uniche’. E che queste siano davvero i prodotti dell’agricoltore, del pescatore, dell’allevatore… di coloro insomma che, lavorando con amore e coscienza, mettono l’anima e il cuore in quel cespo d’insalata piuttosto che in quella carne o il quel pesce.
«Non conoscevo nessuno – ricorda Cantafio – quando sono giunto in Alta Badia. Arrivavo dal Giappone dove, prima della pandemia, guidavo le cucine del ristorante nipponico di Michel Bras. La prima cosa che ho fatto è stata di iniziare a girare per queste valli, guardando e cercando di capire». E in effetti, anche sulle Dolomiti, dove sì brilla un turismo d’alto livello ma dove, ugualmente, più di qualche domanda sulla sostenibilità di tale modello stanno iniziando a porsela (si legga, a tal proposito, il recente libro di Michil Costa, FuTurismo. Un accorato appello contro la monocultura turistica, Bolzano, Raetia, 2022), qualche zona d’ombra c’è… La tanta carne, presentata sulle carte di ristoranti e rifugi, come proveniente «dai masi» e i tanti speck «del contadino» – giusto per fare due esempi – difficilmente possono essere tutti prodotti in queste valli, così piccole. E i pochi che li producono per davvero, investendoci tempo, passione e fatica, spesso non riescono a ottenere la giusta remunerazione, essendo costretti a misurarsi, in una concorrenza ‘sleale’, con la massa di prodotti che giunge da fuori.
Ecco quindi che chi fa ristorazione è davanti a un bivio: o abbraccia la ‘tendenza generale’, adagiandosi nel comodo e nel facile. O propone invece un’operazione di ‘verità’ che (inutile nasconderlo) ha pure valore sociale, e persino etico. E partendo proprio dalle domande «dov’è la nostra tradizione italiana di alta cucina?» e «come esprimerla?» Cantafio immagina una tavola dove a parlare siano i prodotti ‘veri’, dove le materie prime davvero di giornata raccontino la storia di coltivatori e allevatori ‘resistenti’, dove il cuoco sia al servizio della materia prima e non del proprio ego piuttosto che di una tecnica sì virtuosa ma fine a se stessa. Perché «la forza della cucina italiana – ricorda Cantafio – è nei prodotti. E “quando gli italiani lo capiranno allora supereranno anche i francesi”: mi diceva spesso Michel Bras».
E in questi due anni, Cantafio ha costruito rapporti e creato una sua rete di piccoli fornitori: ben sessantacinque, sparsi in tutta Italia: dalle valli alpine sino alla Calabria, terra d’origine della sua famiglia. Sessantacinque fra contadini, allevatori, casari, pescatori che ogni giorno, con ciò che c’è, con ciò che ognuno riesce a dare, riforniscono la cucina della Stüa de Michil. Qui Cantafio propone un raffinato menu degustazione, ove intreccia suggestioni italiane e francesi a reminiscenze orientali (ben percepibili nell’uso delle spezie e dall’attenzione riservata agli ingredienti vegetali) di otto portate (al prezzo di 190 euro) affiancato da tre o quattro piatti, che cambiano quasi giornalmente, secondo i prodotti giunti in cucina. Sicché, se si ha fortuna, una sera ci si può imbattere in una «rarità» che arriva dall’Adriatico: scampi giganti, proposti appena scottati con caldo-freddo di lattuga dell’orto e salsa caesar di crostacei. Piuttosto che in una costata di manzo frollata settanta giorni, cotta sull’osso con salsa al burro di malga e scalogni.
Ma il passo successivo, intrapreso da questa stagione invernale, è stato davvero coraggioso. Una profonda operazione di verità, spiazzante nel panorama dell’alta cucina. E che pone da una parte il cuoco, e dall’altra colui che scrive, nell’impossibilità di non dire il vero. Come valorizzare sino in fondo ciò che arriva in cucina dai sessantacinque produttori, al di là della ‘rigidità’ di un menu degustazione? È proprio per dare una risposta a questa esigenza che ha preso vita Incö (‘oggi’, in lingua ladina): una – e una sola! – tavola che, prenotata con almeno un giorno di anticipo, «nasce la mattina e termina la sera».
Nella weinstube della Stüa, l’ambiente più appartato, si apparecchia una cena (al costo di 230 euro) preparata esclusivamente con le materie prime di giornata. La mattina si appronta il menu della sera, con quei pesci e quelle carni, quelle verdure e quei formaggi che, per la loro esigua quantità, non sarebbero sufficienti per i tavoli della Stüa. «Ma io – dice Cantafio – devo pensare non solo a chi si siede a tavola, ma anche a chi queste materie preziose le produce e me le porta: io ho il dovere di dare continuità al rapporto con i miei fornitori. C’è una fiducia reciproca che non va tradita. Se oggi ho bisogno di una lattuga ma loro hanno anche una cassetta di rapanelli io li devo prendere. Perché quella lattuga e quei rapanelli, che oggi ci sono e domani no, sono il frutto del lavoro di una persona. Che ci ha messo passione, che va giustamente remunerata e al quale io devo dare sicurezza». Incö nasce «pensando alla tavola di casa, in una idea di convivialità che è condivisione di piacere ma anche di idee. Perché agli ospiti che si siedono qui io cucino il meglio dei miei fornitori. Sono loro i protagonisti di questa tavola. Ed è anche per questo che le preparazioni sono perlopiù riletture di ricette tradizionali: perché a parlare devono essere solo gli ingredienti e il loro gusto».
La cena è organizzata in tre tempi, secondo ciò che accade nei giorni di festa. La tavola viene apparecchiata mentre gli ospiti prendono posto, lasciando stoviglie e posate su un canto. E le portate giungono su piatti e vassoi, posti al centro del tavolo, dai quali ci si serve liberamente. È una lunga teoria di antipasti ad aprire l’esperienza di Incö. Nel nostro caso: ovetto delle Dolomiti con salimora (composto di ciccioli e grasso di maiale) calabrese e tartufo bianco; lattuga pan di zucchero con pucia e acciughe; crema di fagioli di Marebbe con cotenna di maiale; scampi dell’Adriatico con condimento delle loro teste ed erbette; frittelle di rossetti; tagliere di focaccine… e per terminare un omaggio al primo maestro di Cantafio – Gualtiero Marchesi – con i suoi celeberrimi spaghetti freddi al caviale. Un pesce sanpietro al forno – per esempio, se il mare è stato generoso – può essere il secondo atto. Giunge a tavola intero: qui viene pulito e sporzionato, lasciando da parte la testa per la gioia degli ospiti che – da veri buongustai! – vogliono apprezzarne anche guance e mandibola. Il terzo momento è dedicato ai dolci: la tavola viene ricoperta di torte, biscotti e gelati, sia d’alta scuola (come nel caso di una Paris-Brest al pistacchio) sia più tradizionali (tarte tatin, linzer…), in un tripudio di gioia e felicità.
Ed eccoci, di nuovo, alla riflessione d’apertura. Qual è la vera cucina? Quella che ricerca il gusto attraverso l’esaltazione di materie prime di qualità superiore, speciali perché uniche e vere? O quella di piatti preparati con ingredienti standardizzati (l’agnello neozelandese, lo scampo sudafricano, il maialino iberico, ecc. ecc.) che, sull’altare della tecnica e dell’‘effetto wow’, sacrificano il gusto, e spesse volte anche l’onestà? Perché c’è una responsabilità che pende su chi scrive di cucina. Il dovere di raccontare la verità: di dire che la materia prima, seppur «di qualità» (quante volte si legge tale affermazione!), nella stragrande maggioranza dei casi non è così unica come l’ospite potrebbe pensare. E che è più facile, per un cuoco, ‘inventarsi’ (e molto più spesso copiare) un piatto con una spuma, una sferificazione o una fermentazione piuttosto che andare a cercarsi un prodotto di qualità estrema. E che infine, verità ‘più vera di tutte’, un piatto gustoso vale più di dieci piatti tecnici.
Una ventina di anni fa ormai lessi, su una nota testata mensile di settore, l’affermazione di un cuoco – allora assai in voga per la sua cucina d’avanguardia – che recitava all’incirca così: «io non ho tempo per andare a cercarmi il pollo. Perché o vado a cercarmi il pollo o rimango al palo in cucina. E io devo rimanere in cucina!». Una alternativa a questa frase (che ho giudicato, e continua a giudicare, assurda) l’ho trovata ascoltando Cantafio raccontare dei suoi anni a Laguiole: «con Michel Bras si andava a fare la spesa tre giorni alla settimana. Si partiva alle 4.30 del mattino, anche se le luci della cucina si erano spente alla 1.00. Si faceva un’ora di strada per raggiungere il mercato, per scegliere, direttamente dai banchi dei contadini e degli allevatori, i migliori ortaggi e le migliori le carni. E sulla via del ritorno, erano ormai le 7.00, monsieur le chef iniziava a pensare cosa avrebbe cucinato con ciò che aveva appena acquistato. Era così che nascevano le ricette». Ecco cos’è la grande cucina. Ecco chi è un grande cuoco. E la strada imboccata dalla Stüa de Michil e da Incö pare proprio quella giusta…!
- Hotel La Perla
- Strada Col Alt, 105
- Corvara in Badia (Bz)
- Tel. 0471.831000
- www.laperlacorvara.it
- info@laperlacorvara.it
- Ferie: dai primi di aprile ai primi di giugno; da fine settembre ai primi di dicembre